Il ragazzo romano che con un cazzotto ha mandato in coma un’infermiera romena sotto l’occhio delle telecamere sarà sicuramente un bravo figliolo, solo un po’ nervoso e suscettibile: capita, di questi tempi.
E la lettera che ha indirizzato alla vittima - senza più darle dell’attaccabrighe, ma chiedendole «umilmente scusa» e chiamandola per cognome e nome, come nei certificati penali - sarà sicuramente farina del suo sacco e non dell’avvocato che cerca di evitargli il carcere. La cultura in cui siamo cresciuti è costellata di pecorelle smarrite, figlioli prodighi, simpatici manigoldi che fatta la marachella si nascondono dietro le gonne della mamma singhiozzando i loro «chiedo scusa, non lo farò più». Siamo un popolo d’impuniti, per il quale il lieto fine giustifica i mezzi.
Eppure certi ravvedimenti provvidenziali si lasciano dietro una strana scia. Per dire: secondo i carabinieri, il ragazzo aveva già dato prova in passato delle sue arti pugilistiche, colpendo un passante che si era arrabbiato con lui, dopo che il nostro, a cavallo di uno scooter, gli aveva quasi arrotato il cagnolino. Chissà se, sbollita la tensione, il boxeur si era premurato di mandare una lettera di scuse anche al passante. E al cagnolino. Di sicuro, la prossima volta che mi troverò coinvolto in una disfida isterica, resisterò alla tentazione di reagire, ricordandomi che la persona che mi sta davanti freme dalla voglia di venirmi a trovare in ospedale con un mazzo di scuse.
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